
Quello che ricordava di più era il sollievo. Non la vergogna del dopo, ma il sollievo del mentre. Il calore tra le cosce, mentre l’urina si spandeva nel bagno. Ripensava alla meraviglia di quella chiazza che, inesorabile, si allargava a terra. Solo successivamente si era resa conto che la porta del bagno era rimasta socchiusa e qualcuno avrebbe potuto vederla. Non si era neanche sfilata i jeans. L’aveva lasciata uscire così, dove si trovava, come si trovava. Era riuscita a quel punto a chiudere la porta prima che dal locale qualcuno potesse vederla. Per i vestiti però non c’era stato niente da fare. I pantaloni erano zuppi, con grosse macchie anche sotto il ginocchio.
Uscì e pensò di dire che era svenuta, si era sentita male. Quando si sviene può capitare di farsela addosso. A lei in realtà non era capitato, quell’unica volta in cui era svenuta davvero, una mattina di dicembre, in ospedale. Era andata per abortire. Durante gli esami preoperatori, si era sentita male e aveva provato a distendersi a terra. No, mettiti sul lettino, le avevano detto. Non era riuscita a raggiungerlo ed era caduta a peso morto. Sulle braccia si sarebbe trovata i graffi delle infermiere che avevano cercato di trattenerla. Si era svegliata nel suo sudore ma non nella sua urina. Aveva controllato.
Fuori dal bagno, invece, la gente non si curava di lei più di tanto. Qualcuno le aveva addirittura parlato e neanche se n’era accorto. Nessuno le chiese cosa fosse successo e lei si trovò per strada, nella folla, con i vestiti da cambiare in qualche modo, una storia inventata per giustificarsi e la sua storia, la sua storia che non poteva cambiare. Nell’aria umida della notte l’odore di birra e gasolio sovrastava il suo.
Comunque, era stato bello come entrare in mare.