
Tamu edizioni ha appena pubblicato il suo primo libro di narrativa, è una formidabile raccolta di racconti della scrittrice Pauline Melville, per la prima volta tradotta in Italiano. Ho fatto due chiacchiere con il traduttore, Pietro Deandrea, su questo libro magico, crudo, visionario e intelligentissimo, per stimolare la curiosità di lettrici e lettori della rivista, e incrementare il sempre scarno dibattito su di una forma di scrittura dalle infinite possibilità.
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Pietro Deandrea (PD d’ora in avanti) è professore associato di Letteratura Inglese presso il dipartimento di Lingue dell’Università di Torino.
Antonio Panico ( AP d’ora in avanti ) è l’ideatore e il direttore di Grande Kalma
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A.P: Nel secondo racconto del libro, gettando lo sguardo oltre il mare rosa metallico, dove immaginava si trovasse l’Inghilterra, Molly pensa che uno dei due paesi – quello di partenza, l’Inghilterra, e la Guyana, l’approdo – sia immaginario. Ho trovato molto interessante che da questo segmento si generi il titolo della traduzione in italiano e volevo chiederti, come prima domanda, il perché. Qual è il processo che ha portato a questa decisione e quando c’entra la risposta che Molly si dà successivamente? E credo che sia questo, riferendosi alla Guyana.
P.D: La scelta di come tradurre un titolo è sempre complessa. Il titolo è il biglietto da visita per attirare l’attenzione di chi vaga tra gli scaffali di una libreria. Ne consegue che l’ultima parola su questa scelta spetta all’editore, più che al traduttore. Sinceramente la mia prima scelta sarebbe stata Mutaforma, una traduzione più letterale dell’originale Shape-shifter: secondo me rendeva bene l’idea delle innumerevoli metamorfosi cui vanno incontro i personaggi di Melville; una parola al passo con questi tempi di migrazioni e mutazioni perenni (per non parlare dei mutanti dell’universo Marvel). L’editore invece ha proposto questa citazione più suggestiva, che rende bene il paradosso della nostra epoca: voler a tutti i costi escludere una parte di noi quando in realtà siamo composti di tante parti, tutte essenziali. Nel racconto, Molly è convinta che la sua Inghilterra sia la salda realtà di riferimento, se paragonata alla Guyana caotica e incomprensibile che sta visitando – ma il finale sarà sorprendente, soprattutto per lei. E poi c’è il riferimento all’immaginazione, e questi racconti sono davvero un tripudio immaginativo. All’inizio trovavo questo titolo un po’ dispersivo, troppo lungo – ora, dopo che l’ho visto in copertina, mi dico “Ma certo, che altro?!?”
A.P: Mi ha colpito molto la struttura del libro, il suo muoversi sulle rotte coloniali tra la Guyana e le periferie londinesi, paesaggi e condizioni – quindi modi di parlare – molto diversi che però non tolgono compattezza narrativa a una raccolta di racconti che ho letto come si legge un romanzo. Io credo che il ricorso al non razionale sia una delle principali strutture che lega tutte le storie. Sono diversi i racconti in cui premonizioni, suggestioni e sogni accompagnano lo sviluppo di eventi crudi, reali. Cosa mi dici al riguardo? Può il ricorso a questa dimensione essere considerato il filo che lega tutti i racconti di Uno di questi due paesi è immaginario? Se sì perché, dal tuo punto di vista?
P.D: Forse non proprio in tutti, ma certamente in quasi tutti i racconti il non razionale offre prospettive inaspettate, originali e sorprendenti da cui guardare le vicende dei personaggi. Persino in “Hai lasciato la porta aperta”, che racconta la storia (purtroppo autobiografica) di un’aggressione notturna, c’è spazio per dimensioni ‘altre’: l’aggressione è avvenuta davvero o si è trattato di una proiezione dell’inconscio della protagonista? Come nella migliore tradizione del realismo magico, entrambe le interpretazioni rimangono valide. Ricordo quel che mi disse Ben Okri, l’autore nigeriano della mia tesi di laurea (e grande autore di racconti): la realtà nigeriana è troppo complessa per essere descritta solo attraverso la cifra del realismo. Qualcosa di simile si potrebbe dire per la Guyana: nazione con un territorio interno vastissimo, anche amazzonico, dove la natura incontenibile ha permesso la sopravvivenza di popolazioni amerindie altrove sterminate, dove le varie forme del mito e del folclore alterano i contorni della realtà. Il padre di Melville era in parte amerindio e l’autrice ha ancora parenti in quelle zone, dove si svolge la trama del suo primo romanzo, Il racconto del ventriloquo (1997; Giunti 1999). Forse, quindi, la presenza del non razionale ha innanzi tutto una radice biografica.
A.P: I racconti di Pauline Melville raggiungono straordinarie vette creative. Una lingua potentissima e multiforme attraverso cui racconta – e fa parlare – figure marginali. Io ho sentito una sorte di matrice Dostoevskiana, a volte ho ritrovato qualcosa di John Cheever e Roberto Arlt. Volevo chiederti se puoi dire qualcosa sui riferimenti letterari – e artistici in generale- dell’autrice; credo sia uno spunto interessante per lettrici e lettori della rivista che si approcciano ad un libro di questo tipo, e quindi a una cultura – quella caraibica- nel contesto storico in cui sono ambientati i racconti.
P.D: Tornando alla risposta precedente, Pauline Melville ha scritto in un suo saggio di sentirsi ispirata non solo dagli autori postcoloniali anglofoni dei Caraibi, ma anche dalla tradizione magico-realista dell’America Latina, come García Márquez. Un altro autore guyanese su cui ha scritto è Wilson Harris (pubblicato in Italia da Einaudi), con cui condivide questa prospettiva non razionale sulla realtà; nei romanzi di Harris, però, spesso i contorni del reale si perdono completamente, mentre Melville tiene sempre in piedi entrambe le dimensioni. La carica immaginativa di Melville, secondo me, ha anche un debito nei confronti dei fuochi d’artificio narrativi di Salman Rushdie (autore di una recensione entusiasta di questi racconti, alla loro prima uscita; i due sono stati anche vicini di casa, a Londra). In senso artistico più lato, secondo me il grande talento di Melville per plasmare personaggi e voci sempre così credibili e convincenti (anche nelle situazioni più inaspettate) lo si deve alla sua carriera di attrice: ha recitato con le più importanti compagnie teatrali britanniche, in film di una certa fama come Britannia Hospital e Mona Lisa, oltre ad aver fatto molto cabaret. Insomma, sa capire quando un personaggio non prende vita sulla carta.
A.P: Il tema della rivista è il racconto breve e come questo si sviluppa in tutte le direzioni possibili. Volevo chiederti cosa rappresenta Uno di questi due paesi è immaginario (Shape-shifter, titolo originale dell’opera) nella produzione di Pauline Melville. Sicuramente l’esordio nella narrativa, e cos’altro? Si tratta di un unicum o l’autrice si è confrontata anche in seguito con il genere del racconto? Te le chiedo perché è la prima volta che la leggo ma potrei già annoverarla tra le mie ‘’raccontiste’’ favorite.
P.D: Ne sono molto felice, come non capirti… Io sono rimasto folgorato da questi racconti sin dagli anni ’90 e sono immensamente grato a TAMU per aver accettato con entusiasmo la mia proposta di traduzione. Non essendo soltanto una scrittrice, oltre all’esordio di Shape-shifter Melville non ha prodotto molto: due romanzi e due raccolte di racconti. Sono sicuro che ti piacerebbero molto anche le storie raccolte in The Migration of Ghosts (1998), ancora immerse nella cifra del non razionale tra i Caraibi e Londra; la mia preferita è “Mrs Da Silva’s Carnival”, che esprime tutta la voglia di vivere del carnevale caraibico-londinese di Notting Hill. Nel volume, poi, Melville comincia ad ampliare i suoi orizzonti e le sue ambientazioni all’est Europa, e questa prospettiva sempre più da ‘world literature’, oltre che postcoloniale, diventa evidentissima nella recente raccolta The Master of Chaos and Other Fables (2021), con racconti ambientati anche in Kurdistan o Argentina; in “The Dream of Ocalan: A Fable”, per esempio, la devastazione causata dal conflitto in Kurdistan rende il reale onirico, evanescente in maniera inquietante. Magari un giorno avremo anche queste due raccolte in traduzione italiana, chissà?
A.P: Torniamo e partiamo e torniamo di nuovo, solcando e risolcando l’Atlantico, ma su qualunque lato dell’Atlantico ci troviamo, il sogno è sempre sull’altra sponda, dice la protagonista dell’ultimo racconto in un passaggio chiave che, non a caso, viene dalla dimensione onirica. Mi piace, e non credo sia un caso, che qui il sogno venga inteso in senso letterale ma anche come desiderio di emancipazione. Mi sembra il perfetto equilibrio di un’architettura narrativa in cui l’elemento intimo – e subconscio – si lega alla dimensione reale – e politica. Come ultima domanda volevo chiederti un parere su questo, quanto nella prosa di Pauline Melville un elemento ha bisogno pure dell’altro per raggiungere questi risultati?
P.D: Sono d’accordo, nei racconti di Melville questo equilibrio è sempre perfetto. Si resta senza fiato, talvolta, nel rendersi conto come i due elementi si spiegano a vicenda in maniera complementare. Ciò ha a che vedere con la definizione che di solito viene data di ‘realismo magico’ in letteratura, in fondo: reale e non reale sempre egualmente presenti, nessuna delle due dimensioni prevale sull’altra. Forse è per questo che il mio racconto preferito di Uno di questi due paesi è immaginario è “Una terra che finge”, che comincia con l’incubo ricorrente della giovane giamaicana Winsome, immigrata da anni a Londra. Winsome sogna di essere condannata a morte con estrema cortesia e gentilezza: “La sua paura sembrava inopportuna, tra persone così accoglienti e disinvolte (…) Sull’onda di cordiali chiacchierate veniva portata inesorabilmente verso il luogo dell’esecuzione, incapace di protestare, incapace di urlare, messa a tacere dalla rilassata affabilità di coloro che la circondavano”. L’intolleranza degli inglesi, d’altronde, sa esprimersi con grande stile… e nel resto del racconto Melville costruisce magistralmente una storia che è esattamente la versione razionale, concreta e burocratica di quell’incubo.