
Antonio: Ho formulato la prima domanda da sottoporti dopo aver letto meno della metà del libro, poi ho cancellato tutto e sono ritornato su questo foglio bianco alla fine della lettura di Non tutti gli Alberi. Mi rendo conto, però, che sto per scrivere le stesse cose che scrissi qualche giorno fa, perché la prima cosa che mi ha colpito è stata la tua capacità di scrivere un legame con la terra e disseminare il libro di dettagli e soprattutto odori. Ti domando allora, e scusa se ci ho messo un po’ per arrivarci, quanto è stato importante l’olfatto per scrivere un romanzo come questo? Te lo chiedo perché la prima cosa bella del libro, almeno per me, è stata sentire l’odore dello zaino del papà di Alice, del pepe che esce dagli armadi piuttosto che la puzza del veleno che Guido dà alle piante. È qualcosa che ti porti dentro, si sente, ma secondo me anche frutto di studio e preparazione. È un odore acre che prende il lettore per il naso e lo guida dall’inizio alla fine in una terra priva di toponomastica, dove gli elementi della natura cambiano gli scenari e generano meraviglia, e paura.
Gianmarco:
Sai Antonio, ti racconto un segreto che ho scoperto per caso: non so come, ma ho trovato un passaggio nel tempo. Posso andare e tornare dal passato in un millesimo di secondo. Mi basta prendere una cima di basilico, quello che c’è in ogni orto o in ogni vaso sui terrazzi d’estate e portarmela prima alle narici, poi alla bocca. Chiudendo gli occhi in un istante, ecco. Tutti sono di nuovo davanti a me. Chi non c’è più, tutto ciò che non sono più, tutti i miei luoghi dei miei ieri, tutti suoni, colori, emozioni e sensazioni della mia infanzia. È un’azione efficace in modo straordinario. Credo che ognuno abbia un passaggio nel tempo come questo. Magari più di uno. Per me questo è il più efficace, a volte è in grado di commuovermi. Ecco, io volevo un romanzo in cui ogni pagina contenesse questa esperienza, non olfattiva, ma più ampia. Che fosse prima di tutto per me un grande bosco pieno di sentieri per riportar-mi (riportare quel me) indietro dal tempo, ovvero rendere vivo quel passato che non c’è più.
Antonio: Dalla terra alle persone che la vivono, Alice cresce e intorno a lei prende forma una comunità. L’ingresso nell’adolescenza, già di per sé burrascoso, è reso ancora più difficile da un’assenza destinata a segnare la crescita di Alice. Qui decidi di restare nel punto di vista della protagonista, grazie a questa scelta il romanzo diventa imprevedibile e spingi il lettore a scendere nella psiche in formazione di una bambina. Il libro mi sembra sempre in procinto di sconfinare nel fantastico, come se in fondo Alice fosse custode di qualcosa – una sorta di patto con la natura – che diventa vero grazie a una fede sconfinata, che è già qualcosa in più di una fantasia o una convinzione puerile. Dimmi qualcosa su cosa rappresenta il fantastico per te. Inteso come genere letterario, ovviamente, ma non solo. Ho trovato molto interessante il dialogo che stabilisci tra realtà, fantasie e fantasia, perché alla fine del libro mi sembra che questi tre elementi si uniscano, come se tra bosco e vita interiore di Alice, realtà e visioni non ci fosse più nessuna rottura.
Gianmarco:
Questo è il mio primo romanzo in cui il “fantastico” in quanto tale non si manifesta con la magia. In Oblio e Tria Ora come in Cave Canem l’elemento surreale regge tutto l’impianto della storia. Ma qui, lo dicevamo prima, ho messo un qualcosa di me che esiste ed è esistito davvero. Tutto è immantato (non esiste come vocabolo, ma mi piace, significa che tutto è avvolto da un manto) di magia, eppure nulla è così surreale da non poter esistere. A volte credo ci sia più magia nella realtà, soprattutto perché essa ti stupisce spesso in modi impensabili.
Il mio legame col fantastico inizia dalla mia terra. Qui è sepolto per esempio (a Bordighera) George MacDonald, precursore di Tolkien quando il Professore era ancora nemmeno studente. Tra le sue opere ho fatto molti viaggi. Poi c’è il paese di Triora, dove ho ambientato le mie opere precedenti, teatro di uno dei primi processi d’inquisizione in Europa.
La lettura del genere fantastico mi ha accompagnato e mi accompagna tutt’ora, è fondante del mio modo di scrivere e, se mi conosci, anche del modo in cui vedo il mondo. In Non tutti gli Alberi più Alice si avventura verso l’epilogo e più i luoghi, il tempo, lo spazio, si deformano. Sia dentro di lei, che fuori. Alla fine come le dice la ragazzina alla stazione di Ventimiglia, non è importante che le cose esistano davvero per farle accadere, a volte basta aspettare il solo momento giusto, cogliere i segni, e crederci con tutti noi stessi.
Antonio: Voglio ritornare al territorio, in particolar modo alla presenza della frontiera. Si può dire che le cose più importanti – e drammatiche – del libro succedono dall’altra parte di una frontiera che è simbolo di speranza ma anche una minaccia di chiusura e violenza. Nei pressi di questa frontiera Alice sembra entrare per la prima volta in contatto con la vita adulta e affronta con paura e innocenza luoghi insicuri, dove l’applicazione della legge diventa mancanza di umanità e l’attesa sembra logorare tutto e tutti. Dall’altra parte c’è la speranza di uno stipendio più alto – come per il padre di Alice, per esempio – e di una vita migliore per chi viene dal sud del mediterraneo, in mezzo il territorio diventa un accampamento. Perché questo spazio diventa importante per il periplo della protagonista?
Gianmarco:
Ho lavorato sui confini credo fin dalla mia prima opera. Sono una mia ossessione continua. In questo romanzo ce ne sono parecchi, dai più piccoli ai più grandi: la siepe, la frontiera, la morte. Ogni confine richiama l’altro, simbolico o fisico, si parla sempre di un superamento di una soglia. Alice cerca di farlo molte volte, “saremo sempre insieme, anche in un’altra stagione” le dice il padre prima di abbandonarla. I confini in questo romanzo sono permeabili ma sempre a una condizione, diversa per ogni personaggio, ma ognuno, nessuno escluso, ne avrà uno da superare.
Anche nella realtà purtroppo la porosità di una frontiera è regolata dalla forza della violenza e dalle possibilità economiche. Vivo proprio a ridosso della Francia, con tutti i problemi (e attenzione, anche con tutti i vantaggi) che ne conseguono. Per cui, forse, essere cresciuto in una “terra di confine” mi ha insegnato il valore dell’attraversare, superare, ma anche quello del guardarsi indietro e di vedere sempre con doppia angolazione la realtà. Tutto torna, il mio legame al fantastico alla fine è una voglia di superare un confine. In questo romanzo affronto il confine forse più importante con il quale ho avuto a che fare. Cosa esiste al di là di quello che siamo su questa terra, cosa diventiamo quando lo attraversiamo, e soprattutto cosa resta di noi negli altri.
Antonio: Faccio una premessa. Sono nato in una grande città e ho vissuto solo in grandi città. Credo che nelle letture si rifletta la nostra esperienza di vita e quindi anche le mie letture sono urbane – fammi passare il termine – magari fantastiche ma circoscritte nel perimetro di una metropoli, poco importa quale, di cultura e cemento. Come ultima domanda volevo chiederti secondo te che futuro c’è nella letteratura – italiana, ma non solo – per il racconto del rapporto con la terra? E poi, andando più sul personale, pensi che ritornerai a scrivere libri con questa matrice? Te lo chiedo perché vedo una riscoperta di questi temi e tu sembri averi il talento per percorrere questa strada e suggerire nuovi sviluppi.
Terra può essere anche cemento, metropoli o bosco, poco importa. La radice di chi siamo è sempre salda dal luogo da cui proveniamo. Spero di non dimenticarmelo mai questo, da dove vengo. Anche perché come dici tu è forse solo da qui che nasce la matrice di tutte le mie storie. Potrò cambiare idea ma questo vorrà dire che avrò solo espanso i miei confini sulla mappa di casa, mappa che può anche andare lontanissima da casa.
Ho una forte tradizione alle spalle, molti prima di me hanno lasciato la loro orma sulla terra da dove scrivo: Calvino (cresciuto a Sanremo fino ai vent’anni), Biamonti, Landolfi, Pastonchi. Il debito è forte ma credo che comunque il pozzo sia generoso. Terra difficile ma terra straordinaria. Ognuno trova casa dove sente che la terra risuona con i suoi passi. Nella letteratura contemporanea io trovo che i luoghi siano sempre stati e siano ancora di più oggi un cardine sul quale mettersi in rapporto con noi stessi. Spesso nei corsi di narrazione che tengo dico sempre che l’ambientazione funge da personaggio nascosto, domina e regola la vicenda. Il luogo sul quale decidiamo di mettere il seme di una storia è importante. Credo che spesso, senza voler supporre niente e parlando per me solo, quando non riesco a cavar fuori un racconto, forse ho sbagliato (in primis) il luogo dove coltivarlo e farlo crescere.