
Vidi la notizia sui display dinamici nel tunnel della metro. Una volta quel tipo di pubblicità era prerogativa di Pechino, ora sapevo che c’era ovunque, persino in Italia.
Per tutto il giorno passato, non era morto nessuno.
Ne parlavano come di qualcosa di inspiegabile – wú fǎ jiě shì – ma non come di qualcosa che non ha una spiegazione logica – mò míng qí miào. Vivevo in Cina da abbastanza tempo per cogliere la differenza. «Figuriamoci» mi dissi, e subito dopo: «ce l’hai fatta, alla fine».
Non pensavo a te da più di dieci anni.
Ti avevo cancellato, relegato nella parte di mondo che avevo abbandonato.
Nemmeno tu mi avevi più pensato, o se l’avevi fatto, te l’eri tenuto per te.
«Non voglio fermare il tempo» mi avevi detto in uno dei nostri ultimi litigi, «mi basta rallentarlo».
All’inizio i tuoi studi di fisica quantistica mi affascinavano, restavo ore a sentirti parlare di come funzionava il mondo, secondo te. Ti chiedevo mille cose, tu dicevi sempre: «Grazie per la domanda» e poi mi spiegavi tutto. Col tempo, però, i tuoi studi avevano finito per fagocitarmi. In una relazione inversa, il mio interesse era scemato – non ero abbastanza intelligente – mentre tu non riuscivi a parlare d’altro.
«Non puoi tenere fuori la fisica quantistica dal nostro matrimonio?» ti chiedevo ogni tanto.
Allora tu – grazie per la domanda – mi rispondevi che l’intreccio quantistico non è reversibile: se due particelle si uniscono, diventano un sistema unico e questo sistema riesce a influenzarsi anche se sono molto lontane.
«Allora andrò a vivere in Cina» ti avevo detto, e tu avevi riso: «Succede anche se sono lontane anni luce, Clara».
E quindi era quello il mio destino? Restare incatenata a te per sempre, come un tuo riflesso, senza possibilità di decidere per conto mio?
Fu in quel periodo che iniziai a distaccarmi sempre di più, in un disperato tentativo di mantenere la mia identità di particella. E fu in quel periodo che tu cominciasti a lavorare alla Teoria delle Stringhe e alla Gravità Quantistica a Loop.
«Se lo rallento abbastanza, le persone smetteranno di morire.»
«Per sempre?»
«No, solo per un po’».
A volte ero esasperata: «Ti prego, facciamo qualcosa insieme, qualsiasi cosa» e allora ti esasperavi tu: «Come fai a non capire l’importanza del mio lavoro?»
Ma a me sembrava sprecassi il tuo tempo.
La verità era che speravo non ci saresti mai riuscito.
Mi tornò in mente con prepotenza, mentre la metro si avvicinava a Sichahai. Era quello il motivo per cui ci eravamo lasciati, alla fine. Non perché ti avevo tradito, su quello ci eri passato sopra. Neanche perché mi avevi detto che non volevi figli. Su quello ci sarei potuta passare sopra io.
È che avevi capito che speravo tu fallissi, e questo ti aveva ferito sopra ogni altra cosa.
Me ne ero andata, ero venuta qui, e in qualche modo la distanza mi aveva fatto bene perché pochi mesi dopo essere atterrata a Pechino, dopo aver trovato casa negli hutong, dopo aver conosciuto i miei nuovi colleghi, la mia vita passata sembrava già lontanissima. Allora la piccola particella Clara non era prigioniera, mi dicevo. E poi, da un giorno all’altro, non ti avevo pensato proprio più. Fino a quel giorno.
Uscii dalla metro e raggiunsi il lago Houhai prima di telefonarti. Tamburellavo sul corrimano di pietra candida che lo delimitava, carezzando i fiori di loto che ne scandivano il ritmo.
Rispondesti al telefono senza dire niente. Toccava a me. Avrei voluto dirti che sapevo che ce l’avresti fatta, che in fondo lo sapevo da sempre, che eri un genio, ma non mi avresti creduto. Non era quello il momento per dirti quelle cose. Avrei voluto chiederti come ci fossi riuscito, se avessi lavorato ininterrottamente da quando ci eravamo detti addio. Se mi avessi pensato. Ma nemmeno queste cose erano giuste. Avrei voluto chiederti perché volessi rallentare il tempo, chi volessi tenere in vita per sempre.
Alla fine, ti chiesi soltanto: «Cosa succederà ora?».
Tu mi dicesti: «Grazie per la domanda» e restai ad ascoltare la risposta.