
Fermo la cassetta e riavvolgo il nastro fino al punto esatto in cui parte la canzone. So calcolarlo alla perfezione: ascolto sempre lo stesso pezzo, ancora e ancora in un loop infinito.
Mia madre, al volante della sua panda verde acqua diretta verso casa dei suoi genitori, sta ponendo le domande di rito di fine giornata a mio fratello seduto dietro (come è andata la scuola, bene non abbiamo fatto niente). Nel frattempo io, braccia conserte sul sedile del passeggero, ho il permesso di isolarmi con le mie cuffie. È il momento della settimana che preferisco: ho un’intera mezz’ora tutta per me. Pagherò cara questa fuga, lo so già. Domani la prof di latino mi sottoporrà alla pubblica gogna perché non ho studiato a sufficienza, i compagni di classe ghignanti in attesa del sangue. Le declinazioni mi scivoleranno via dalla testa proprio mentre sarò interrogata; mi coleranno dalle orecchie per cadermi ai piedi, anche se a me sembrava di averle tutte sulla punta della lingua. Mi stringo nelle spalle, tanto andrebbe una merda anche se avessi studiato per cinque, dieci, quindici ore, non è mai abbastanza. Schiaccio play e Adam’s Song dei Blink182 inizia a urlarmi nei timpani.
L’auto è una scheggia nel traffico. Mia madre conosce un percorso che taglia la città al centro, si muove tra gli incroci come se li avesse disegnati lei. Una pioggia leggera bagna i finestrini, si deposita sul vetro come granelli di zucchero sfuggiti dal cucchiaino da caffè, l’autunno apre a fatica la strada a un lungo inverno. Quello che sta per succedere sta tutto in un elenco: pantaloni a zampa e fianchi scoperti, dizionari di greco portati a mano, manifestazioni contro la riforma della scuola, assemblee di istituto in palestra e sigarette nei bagni. In generale le ragazze non hanno la pancia, prendono dei bei voti, fanno incazzare i loro genitori ma solo il giusto, hanno un fidanzato forse due. Ragazze carine senza sforzo.
Io di sforzo ce ne metto tantissimo, per qualsiasi cosa, mi sembra di essere l’unica a non conoscere la formula adeguata, come se si fossero dimenticati di mandarmela. È per questo, invece, che la canzone è perfetta, malinconica e arrabbiata allo stesso tempo. Nella realtà sott’acqua da cui non riesco a emergere è una boccata d’aria. Per tre minuti e trentasei secondi scompaiono tutte le raccomandazioni che sto ricevendo da alcuni mesi a questa parte: vedrai che se ti vesti così sembrerai più magra, se mangi di meno ti andranno i vestiti dell’anno scorso, se fai più attenzione non ti dimenticherai nulla. Ma è difficile far entrare nuovi pensieri in una testa già troppo piena, lo imparerò a mie spese.
La canzone è ormai finita per due volte, sto per ascoltarla una terza, siamo appena oltre la metà del tragitto. La città ha una bellezza violenta che me la fa amare e odiare allo stesso tempo. Mia nonna ci starà aspettando alla finestra, mio nonno si starà accendendo l’ennesima marlboro super filtro prima di cenare, la pasta pronta nel forno. Certe cose non cambiano mai. Altre invece sì, l’ho capito da poco.
Oggi ho fatto la mia scelta e ho diviso i vestiti. Alcuni sono rimasti nella casa vecchia, quella che ha tenuto mio padre. Gli altri sono andati nella nuova, quella che ha affittato mia madre. Spero solo di averli distribuiti equamente: lo stesso numero di indumenti per abitazione, non voglio offendere nessuno. Anche i miei libri hanno ricevuto lo stesso trattamento, così come gli oggetti che decorano la mia camera, anzi le mie camere d’ora in poi. Ho buttato tutto in una grossa valigia e ho percorso a piedi la distanza tra i due appartamenti. Mi sembrava di trascinare un cadavere per la strada. Il mio cadavere. Ho cercato di sbrigarmi sperando che non se ne accorgesse nessuno, non volevo disturbare. Chissà se ci ho riflettuto abbastanza.
Prima di uscire dalla seconda casa mi sono guardata allo specchio. Perché mi sento così? Me lo sono chiesta pizzicandomi un rotolo della pancia. Come faccio a diventare carina senza sforzo? Ma non sono sicura che sia quello che voglio. Forse vorrei solo andare bene così come sono, ho pensato mentre mi chiudevo la porta alle spalle. Tra un paio di mesi mia madre mi domanderà perché sia vestita sempre uguale: «Dove sono finiti tutti i tuoi vestiti?» È fatta, mi dirò tra me, mi hanno scoperta.
La musica si ferma. Solo anni dopo capirò di cosa parla davvero la canzone, ora ho semplicemente bisogno di ascoltarla e riascoltarla. Riavvolgo il nastro, aspetto il punto preciso, schiaccio play.