
Quando eravamo piccoli, molto più piccoli di così, nel nostro condominio arrivò un bambino nuovo. Ci volle qualche giorno prima che ce lo facessero incontrare, non stavamo nella pelle e continuavamo a fare domande ai nostri genitori, un po’ per la curiosità e un po’ perché quella era proprio l’età dei perché. Loro non ci dicevano molto, solo che dovevamo aspettare ed essere gentili con lui quando l’avremmo conosciuto, perché non era come noi. Lui, ci dicevano, è speciale, e in noi cresceva ancora di più la voglia di vederlo.
A una prima occhiata, quando effettivamente lo vedemmo – uno per volta all’inizio, poi tutti in gruppo quando i nostri genitori si sentirono tranquilli – di speciale non sembrava avere granché. Però sorrideva di continuo a tutti, in un modo un po’ storto tutto suo che lo faceva sembrare più furbo, come se avesse capito qualcosa che noi ancora ignoravamo. Ogni volta che gli rimproveravano qualcosa – i suoi genitori perlopiù, raramente uno dei nostri – lui sorrideva e poi diceva “io non credo proprio” partendo con una risata stridente e metallica davanti alla quale gli adulti si scioglievano e dimenticavano il motivo per cui lo avevano sgridato. Ci fece paura, all’inizio, quel suono strano e alieno che gli usciva dalla bocca, ma invidiavamo quel suo essere al di sopra delle critiche e davanti allo specchio – questo lo ammettemmo solo anni più tardi, quando le acque si erano ormai calmate – provavamo anche noi a replicare quel suono, rabbrividendo. I nostri genitori continuarono a rimproverarci, nonostante tutti i tentativi, e noi ci convincemmo ancora di più che doveva essere proprio furbo per farla sempre franca.
Entrò a far parte della nostra banda, come ci piaceva definire il piccolo gruppetto con cui condividevamo i giochi e le corse nel parchetto condominiale: ci faceva sentire più grandi quella parola, banda, appena scoperta e così nostra. Si dimostrò subito un anarchico: quando lo trovavamo a nascondino, lo toccavamo, gli dicevamo che era eliminato, lui rideva – noi non l’abbiamo mai dimenticata quella risata – ci diceva “io non credo proprio” e poi tornava a nascondersi. Non riuscivamo a gestirlo e nemmeno a capirlo: se gli facevamo goal giocando a scalare – provando a giocarci almeno, con quel pallone che era più grosso di noi – lui faceva quel sorrisetto storto, come lanciandoci una sfida, poi diceva la solita frase e se ne fregava, di noi e di tutti. Trascinati dalla sua esuberanza, iniziammo a imitarlo.
I nostri giochi non avevano più né capo né coda ma ci divertivamo da matti – noi non ci siamo mai più divertiti così in vita nostra. Era talmente liberatorio vivere così che ci chiedevamo che bisogno ci fosse di regole al mondo, di quelle poche che ci davano – ma guai a trasgredirle – e che ci risultavano già insopportabili, almeno per quel poco che ne capivamo del mondo a quel tempo. Fino ad allora avevamo chiesto scusa anche se non ci dispiaceva, lui invece continuava a evitare di essere punito anche dimostrando che non gliene fregava niente di quel che gli era stato appena detto. A un certo punto chiedemmo perché lui poteva farla franca e noi no – era pur sempre l’età dei perché – e fu allora che i nostri genitori ci dissero che non dovevamo prendercela per quel trattamento di favore.
Lui, ci dissero, è sfortunato: a lui manca una rotella.
Ci liquidarono così, ma noi a quel punto volevamo sapere quale fosse questa rotella, per togliercela anche noi e vivere liberi senza temere punizioni. Non ci accontentammo, così andammo a chiedere all’unico che poteva darci la soluzione. Oggi siamo integrati. Capiamo come gira il mondo e le benevole regole di fronte alle quali si deve chinare il capo. Ci siamo dati una bella raddrizzata, ma il senso di colpa rimane. Se fossimo stati solo un po’ più grandi saremmo stati istituzionalmente cattivi, avremmo imparato a prenderlo in giro e col tempo ci saremmo dimenticati di lui, ma eravamo piccoli e stupidi e curiosi di capire come fare a liberarci; che ce ne faremmo, oggi, di quella libertà?Così lo accerchiammo, gli parlammo senza ricevere risposta ed eravamo così frustrati da quella risata, dal suo essere al di sopra di ogni cosa che lo stringemmo, ognuno con un arto o dei capelli o anche solo un po’ di pelle fra le dita e cercammo da soli quello che volevamo trovare. Cercammo a lungo, prima in quella bocca che non provava nemmeno a chiudersi, poi lungo il corpo, infine dentro la testa; infilammo le dita dove potevamo e dove non riuscivamo ad arrivare facevamo forza, convinti che poi avremmo rimesso tutto a posto, cercammo tanto a lungo – e inutilmente – che le sue rotelle, dovunque fossero, finirono per fermarsi del tutto.