
La chiamata è arrivata oggi, andavo al lavoro con la metro. Scrollo la home di Instagram quando vedo comparire un numero sconosciuto sulla parte alta dello schermo. Di solito non rispondo ai centralini, eppure. Intanto l’altoparlante annuncia la fermata Bolivar.
«Ciao Marco, sono Claudia».
Claudia, Claudia. Non sarà mica…?
«Sono la sorella di Milena»
«Ciao Claudia» dico.
«Scusa se ti disturbo. È importante!»
«Che succede?» chiedo sollevando il busto.
«Milena ha avuto un incidente stradale.»
All’altro capo del filo singhiozzi, qui sangue immobile, freddo, respiro mozzato.
Il suono registrato urla Tolstoj. E mi vengono in mente: Anna Karenina, treno, suicidio. Ma le persone che entrano ed escono sembrano tutte affamate di vita nei loro vestiti eleganti e cuffie Bluetooth ultimo modello. La metro riparte.
«È in coma irreversibile» continua Claudia.
«Quando è successo?»
«Tre mesi fa.»
«E me lo dici adesso?»
«Vi siete lasciati da quattro anni, non avevate più contatti.»
«E allora perché mi hai chiamato?»
«Io e la mia famiglia abbiamo bisogno di sapere se nei dieci anni in cui siete stati insieme, Milena ti ha mai detto qualcosa a questo proposito: cosa avrebbe desiderato? Vivere come un vegetale o staccare la spina?»
Siamo a Frattini, le ruote fischiano sulle rotaie, il vagone si arresta con un contraccolpo che mi spiaccica contro il sedile. Un uomo entra, si fa largo sgomitando e urlando «Permesso!»
«Ci sei?» dice Claudia.
«Sì, scusa. Sono sulla metro.»
Il buio dietro al finestrino scorre lento, ci muoviamo piano. L’uomo grida che ha un colloquio di lavoro e che a Milano i mezzi fanno schifo «se perderò il posto sarà per colpa dell’amministrazione comunale!»
«Tutto ok? Vuoi che ti richiami?» domanda Claudia.
Vorrei dire di sì, ma poi un’altra telefonata, ancora il timbro grave e nasale di Claudia, identico a quello della sorella. Milena che adesso non parla più. Quando litigavamo in macchina volevo strapparle le corde vocali. E ora.
«Più di una volta mi ha confidato che non voleva vivere così, che avrebbe preferito morire» rispondo.
«Sei sicuro? Quando te l’ha detto?».
«Sono sicuro. Eravamo sul divano, avevamo appena letto la notizia di una ragazza in coma irreversibile.»
La metro è ferma, l’uomo sbraita, se la prende con un bambino che strilla per la fame. Nessuno sembra badarci: alcuni leggono, altri ascoltano la musica o un podcast, altri ancora sono sotto ipnosi da smartphone.
«Stai bene?», chiedo.
«Insomma, tu?»
La metro ricomincia a muoversi.
«Meno male» esclama l’uomo.
«Non sto bene. Sai quanto ci tenevo a Milena.»
«Perché vi siete lasciati? Non me l’ha mai detto.»
«L’ho lasciata io. Le volevo bene, ma non l’amavo più come prima. Non era giusto rimanere insieme, però ho sofferto comunque. Mi sentivo così in colpa.»
Quanto dolore per recidere quel cordone ombelicale, aiutarla a preparare le valigie per andarsene, fingere che saremmo stati bene e che la dipendenza affettiva si trovasse solo nei libri e nei film.
«Claudia?»
È caduta la linea. Gelsomini, informa l’altoparlante. Dovrei scendere, ma le gambe non si muovono. Sento caldo allo stomaco, le viscere strizzate nel basso ventre. È il cordone ombelicale che sta finendo di spezzarsi, penso. Lo sapevo che sarebbe successo solo da morta.
Rimango a bordo della metro fino al capolinea, poi torno indietro. Scendo a Gelsomini.