
A.P: Con il ritmo incalzante che contraddistingue la tua scrittura, trascini il lettore nella vita di Adele e il suo desiderio materno che la porterà ad ‘’adottare’’ un bambino beneficiario della J-card. Non mi sembra un caso che il libro cominci proprio dal letto della protagonista, la tua novella sembra svilupparsi dagli spazi più intimi e inviolabili, la casa e ovviamente il corpo, che sono pure il terreno in cui si genera il ‘’perturbante’’ nella tua narrazione. È da queste angolature che, secondo me, preferisci raccontare le ossessioni e i drammi dei protagonisti; raccontaci qualcosa in merito, perché penso sia una chiave di lettura importante: in alcuni segmenti, leggendoti, ho avuto la sensazione che volessi strizzarmi le budella e tutti gli organi coinvolti nel processo di alimentazione-digestione.
L.S: Innanzitutto, vorrei ringraziarti per questo spazio che hai dedicato a me e alla mia novella. La tua lettura è molto puntuale. Il corpo e lo spazio domestico sono due delle mie principali ossessioni narrative. Mi piace mostrare i rapporti disfunzionali che, come spesso capita, nascono proprio fra le pareti domestiche. La casa è il primo luogo in cui sviluppiamo le relazioni e la nostra, seppur frammentata, identità. Il corpo del personaggio è anche il corpo del testo. La traduzione visibile, e percepibile, di un disagio molto più ampio. Mi piace pensare che il corpo sia sempre una bomba sul punto di esplodere e questo per tutto il carico di cui si fa portatore. Un carico psicologico, sociale e relazionale, appunto.
A.P: La tua novella potrebbe essere considerata una distopia, trovo interessante che tale distopia si sviluppi intorno all’elemento del cibo; ai possessori della J-card è riservato un ruolo inferiore nella piramide sociale che è il riflesso di ciò che mangiano e cioè Junk-food: uno scenario che non è tanto lontano dalla realtà se vediamo alcuni paesi del mondo – forse proprio quelli ‘’economicamente ‘’ più avanzati – e la stessa Italia dove è sempre più difficile per tutti accedere a una dieta mediterranea ed equilibrata. Volevo chiederti da dove nasce questa idea, ho come l’impressione che i corpi (e gli organi) devastati dalla cattiva alimentazione siano un elemento chiave intorno a cui si generano le ‘’differenze di classe’’ nel tuo racconto ma anche le ossessioni dei personaggi, come Francesco il cui immaginario è tormentato dalle malattie più direttamente collegate a un’alimentazione scorretta e addirittura pericolosa.
L.S: Anche in questo caso mi piace pensare al parallelo fra corpo e mente. Siamo bombardati dalla spazzatura. Se dovessi pensare a una metafora, direi che siamo diventati come quelle oche costrette a ingurgitare il cibo con l’imbuto spinto fin nella gola. Essere sazi, sia intellettualmente sia dal punto di vista alimentare, vuol dire anche essere anestetizzati. Non avere più quella fame di sapere e di cibo buono, buono anche in quanto sano e genuino, che sarebbe necessaria per farci crescere curiosi, critici e autentici. Anche in questo caso lo stato del corpo riflette quello della mente. Accediamo al cibo malsano e alla cultura di massa con quieta accettazione. Proprio come le oche di cui ti parlavo.
A.P: Lo scenario distopico, a un certo punto, si intreccia con una trama di tipo noir; ci sono delle sparizioni eccellenti nell’economia della storia che avvengono sotto forma di morti misteriose; ci si libera di figure che, nonostante la brevità della novella, sembrano segnare la vita dei protagonisti da un passato remoto. Il rapporto tra Adele e Francesco si sviluppa in uno scenario cupo, quindi, e alla fine loro stessi sembrano vittime (e strumenti) di una società tossica (in tutti sensi) in cui l’umanità fa fatica a ricavarsi uno spazio d’azione. Dimmi qualcosa in più rispetto a questo; insomma, il confine tra vittime e carnefici è molto labile, secondo me, e non emerge, tra le righe, una resistenza come spesso avviene nelle distopie.
L.S: Hai detto bene. Non c’è un vero e proprio confine fra vittime e carnefici, proprio in virtù di quello che dicevo prima. Se il senso critico e l’affettività seguono le regole di una società bulimica e cieca, è difficile trovare una via autentica allo sviluppo dei rapporti. Sia sociali sia personali. Da questo punto di vista, la mia più che una distopia è un’allegoria distopica.
A.P: L’ultima domanda vorrei fartela sullo stile con cui hai scritto J-card. Hai optato per frasi corte e spesso taglienti. Mi ha ricordato molto il modo in cui scrivi racconti, compresi quelli pubblicati su Grande Kalma. La lettura scorre veloce anche nei momenti più complessi e volevo chiederti di questa scelta; ti è venuta naturale? è frutto del tuo retroterra di letture? La scrittura è a tratti fulminea, il ritmo incalzante sembra relegare ancora di più in una posizione subordinata i protagonisti, Adele e Francesco ovviamente, ma anche Carlo e tutti coloro i quali – forse per appena un secondo – sembrano avere un ruolo dominante nella società dove i poveri hanno accesso al solo Junk-food. È come se la liquidità della narrazione, e dei profili umani, non lasciasse nemmeno tutto lo spazio che merita il dramma e questa cosa si riflette in tutte le relazioni duali della novella; in primis nel rapporto tra Adele e Carlo, il fratello adottivo.
L.S: Bravissimo. Ho cercato di mostrare i personaggi come non fossero mai davvero protagonisti delle loro esistenze. Gli stessi Adele e Francesco tentano di far presa sulla realtà, ma la realtà stessa è come una superficie di vetro su cui non si può che scivolare. L’unica forma di resistenza possibile è il riconoscimento di un’affettività che sfugga a un’indolenza che ha ormai permeato ogni aspetto dell’esperienza. Qualche spiraglio c’è, ma è un lumicino.