
A.P: Hai scelto di raccontare una storia vera e io, ogni volta che leggo una storia vera, mi domando innanzitutto da dove sia partita l’autrice e poi che cosa ci sia di inventato, immaginato, perché oltre al lavoro di documentazione, la vita delle dial-painters che tratteggi è ricca di particolari, sfumature della vita quotidiana femminile all’alba degli anni Venti del Novecento in un paese, gli Stati Uniti, attraversato da grandi cambiamenti organizzativi, economici e di costume. Io, per esempio, di questa storia concreta – quella della U.S Radium Corporation e delle sue lavoratrici – non sapevo nulla; hai sentito l’esigenza di colmare un vuoto sull’argomento? Magari puoi dare alle lettrici e ai lettori di Grande Kalma altri riferimenti sulla tematica, nella narrativa, la saggistica ma anche la cinematografia.
V.B: Sì, hai detto bene, in qualche modo sentivo di dover colmare un vuoto perché, quando per caso mi sono imbattuta in un video su Internet che presentava questa vicenda, in sintesi e accentuandone gli aspetti più crudi (quelli legati al decorso della malattia), c’era poco materiale a disposizione. La visione di quel breve filmato mi aveva turbato al punto che ho subito sentito l’impulso e il desiderio di approfondire la storia. Scartabellando testi e documenti, ho scovato due libri in lingua inglese: “The Radium Girls” di Kate Moore e “Radium Girls” di Claudia Clark; il primo con un taglio più giornalistico-divulgativo e il secondo con un affondo di carattere storico-sociale circa il contesto dell’epoca. Sono ancora le fonti più ricche sull’argomento che, ad oggi, sta comunque ricevendo una maggiore attenzione dato che se ne parla di più e tramite più canali (su Wikiradio con la voce di Massimo Pinto; sullo schermo in un film di Lydia Dean Pilcher e Ginny Mohler, anche se non ancora doppiato in italiano, ecc). Nella tessitura della trama ho cercato di rievocare l’ambientazione della vita in fabbrica e l’atmosfera degli anni Venti, integrandone con la facoltà immaginifica soprattutto gli aspetti connessi alla vita affettiva delle protagoniste.
A.P: Inoltrandoci nella lettura del tuo romanzovediamo come, un po’ da sempre, le esigenze del sistema produttivo siano prioritarie rispetto alla salute delle persone e come questo aspetto, nella vita concreta di chi è coinvolto, si trasformi in un dramma continuo che sconvolge la vita di tutta la famiglia. Nel caso concreto delle dial-painters, l’avvelenamento da sostanza radioattiva inizia per via orale, attacca i denti, la mandibola per poi manifestarsi ad altri livelli. Ho trovato particolarmente bello il modo in cui racconti questo male continuo e invasivo, la tua scrittura diventa emotiva quando parli di Miriam e delle sue compagne, e di come infiacchimento e speranza si alternino nella loro sofferta quotidianità. Trasmette un senso compensatorio di lotta rispetto a un modo barbaro di lavorare (e di vivere) che poi, almeno stando a Le ragazze fantasma, ha interessato moltissime donne di origine italiana. Ci vuoi dire qualcosa in più su questo aspetto? Come cambia il modo di scrivere nel racconto della malattia?
V.B: Sì, hai colto un punto delicato. In molti casi, è proprio così, si è trattato cioè di ragazze provenienti da famiglie italo-americane o comunque appartenenti ad altre nazionalità. Queste donne, per venire incontro alle esigenze delle famiglie e, perché no?, anche per emanciparsi (dato il compenso che poteva superare quello dei genitori), si sono accaparrate il lavoro in questo nuovo opificio a costo di impegnarsi sodo e a lungo. Questa consapevolezza ci consente di inoltrarci in una piega della realtà sociale che è uguale dappertutto e sempre. “Non c’è società al mondo che non sottoponga le proprie minoranze ad una qualche forma di persecuzione o, quanto meno, di discriminazione” c’insegna René Girard e noi sappiamo che gli immigrati sono ovunque una minoranza, e quindi trattata come tale. Per quanto riguarda la malattia, ho cercato di raggiungere il duplice obiettivo di restituire, da un lato, lo spessore delle sofferenze, innanzitutto fisiche (rese ancora più atroci e drammatiche dall’ignoranza della medicina del tempo), e, dall’altro, di manifestare rispetto alle protagoniste di una vicenda già così raccapricciante, evitando di indulgere in descrizioni dettagliate e minuziose dei mali corporei e morali.
A.P: Quando la malattia dilaga e sfregia le lavoratrici della U.S Radium Corporation, è ormai chiaro che si tratta di patologie legate all’avvelenamento da radio. Le cinque donne protagoniste del tuo libro iniziano una battaglia in un contesto di solitudine e indifferenza, le informazioni sono poche e i rari riscontri scientifici sono manipolati da interessi di carattere politico ed economico. Bisognerà attendere la seconda metà degli anni Trenta per vedere un’azienda condannata per danni dovuti all’avvelenamento da radio e, visto che concludi il tuo libro in questo periodo, sarei curioso di sapere cosa cambia in questo ventennio (1918-1938) in un paese in cui la logica dell’accumulazione ha tradizionalmente vinto su esigenze di altro tipo.
V.B: In realtà, anche se per certi aspetti la condanna della Radium Dial dell’Illinois alla vigilia della seconda guerra mondiale costituisce senz’altro un traguardo per le dial-painters e, più in generale, per i diritti dei lavoratori, la sua vicenda rivela parecchie zone d’ombra. Innanzitutto perché è un’azienda che comincia a impiegare le dial-painters diversi anni in ritardo rispetto alla Radium Corporation in New Jersey, cioè quando già la medicina stava cambiando rotta rispetto al suo modo di considerare il radio. Non solo, nonostante l’eco mediatica della vicenda processuale delle cinque radium girls, l’industria continuò a prosperare e a tenere all’oscuro i propri dipendenti circa la nocività della pittura. E poi c’è da aggiungere che, malgrado la sentenza che certamente segnò un punto di svolta, si perpetuò – in questa e in altre ditte – l’impiego del radio e, soprattutto, la mancanza di adeguate protezioni dalle radiazioni, ancora fino a tutti gli anni Settanta. Tutto ciò collima e non, io credo, collide, con quanto da te ben rilevato; per dirla con Claudia Clark, la cosiddetta “scoperta del radio”, lungi dall’attenere al mero ambito medico, si profilò come un processo politico. E questo, come tale, ha richiesto continue negoziazioni tra il mondo dell’impresa e quello dei lavoratori, per giungere a definire quali isotopi del radio siano i più pericolosi, quali le pratiche lavorative da mettere al bando (è sufficiente eliminare la tecnica del lippointing?) e così via.
A.P: Ritornando all’inizio del romanzo, mi ha colpito come nell’immaginario collettivo la luminescenza delle lancette per orologi a cui lavoravano le dial-painters venisse vissuto come un elemento di distinzione, una speranza di scalata sociale per giovani donne che venivano da famiglie povere, quasi sempre emigrate negli Stati Uniti. In fin dei conti, dalla rivoluzione industriale in avanti, la logica del profitto interferisce sempre con la dimensione del sogno, un sogno che spesso, come in questo caso, si trasforma in incubo. Vorrei chiederti allora, correndo consapevolmente il rischio di farti una domanda più grande di te, se vedi nella contemporaneità situazioni simili o assimilabili. Non mi riferisco solo a settori industriali particolarmente antiquati e dannosi per la salute e l’ambiente, ma anche a modi di lavorare che vengono visti come innovativi e pioneristici oggi e che invece, in un futuro prossimo, potremmo vedere come obsoleti e contrari alla decenza.
V.B: Evidenzi un altro punto cruciale – il legame tra profitto e sogno –, la cui serietà richiederebbe una riflessione approfondita, perché dovremmo prendere in esame il mutamento dei valori o, meglio, questa sorta di trasvalutazione dei valori, per dirla con Nietzsche, oggi in atto, che tiene in considerazione sempre minore la cultura, la conoscenza, l’esercizio dello spirito critico e sempre maggiore, invece, una maniera di guadagnare fine a se stessa e svuotata, a volte, di tutte quelle capacità che potrebbero effettivamente edificarci o, quantomeno, attrezzarci per la società e per la vita. Ne è un esempio il proliferare spasmodico dei vari influencers, i cui guadagni sono spesso guardati con ammirazione e ambizione dai più giovani, e crescono esponenzialmente all’aumentare dei followers sui vari social network, dei video pubblicati ecc. i quali, non di rado, tradiscono solo una malcelata vanagloria.