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Frantumi: intervista di approfondimento con Morgana Chittari

A quindici mesi dall’uscita, il libro di Morgana Chittari pubblicato da Lekton Edizioni– autrice pubblicata sul numero 8 di Grande Kalma – è andato in ristampa; ne parliamo in questa splendida chiacchierata nell’ambito delle interviste di approfondimento della rivista.

A.P:

Il titolo del tuo libro fa capire subito con che tipo di materiale umano e poetico il lettore e la lettrice si dovranno confrontare; detto questo, pezzo dopo pezzo, l’idea che esce fuori è coerente, l’impasto si compatta e si delinea un mondo prima localizzabile poi evanescente, mutevole, che prova a ricomporsi sempre più in là. Mi sembra che i personaggi di Frantumi abbiano in comune questa voglia di scappare, non rendersi reperibili, evitare di diventare cittadini tassabili come scriveva Pessoa in un passo del Libro dell’inquietudine, anche quando lo spostamento non è geografico ma interiore, sentimentale. Cosa mi dici al riguardo? Potrebbe essere questo elemento uno dei collanti di Frantumi?

M.C:

Frantumi nasce dall’idea che i piccoli corpi siano simbolo del grande Corpo sociale. 

A unirli è il concetto di non appartenenza. Nel loro essere evocativi e intrisi della materia dei sogni restano creature ancorate alla contemporaneità. Sono corpi in fuga in quanto non si sentono parte della società (della nazione, della città, del quartiere) in cui sono nati. Essere consapevoli, citando Cioran, della caduta nel tempo e sentire di non appartenere a nulla è sostenibile solo come condizione momentanea, non come stile di vita. Sono anime che percepiscono come gabbia persino il loro stesso corpo. La sola dimensione accogliente è il loro mondo interiore.

Andrea, creatura errabonda di Mai più, lascia dietro di sé solo opere inconcluse. Libero, protagonista di A roba vanniata, che gioca a Risiko da solo, legge di Long Jhon Silver e sogna di imbarcarsi e lasciare il ghetto, capisce subito di essere diverso dagli altri bambini del quartiere. Il Professore de L’uomo senza amore, senzatetto colto ed elegante nel suo paltò nero, potremmo incontrarlo all’ingresso del Penny Market sotto casa e ci direbbe molto delle ferite del nostro tempo. La Sciantosa che si innamora del Professore è una donna anziana scossa da sentimenti e pulsioni sessuali inattese. Tutte creature destinate a restare ai margini della Storia. Se la vita non offre loro dignità, nelle storie che inventiamo possono ritrovarla. Spesso sono corpi in fuga anche in quanto gettati nelle cose del mondo loro malgrado. Forse, se avessero potuto scegliere.

Questo sentirsi sempre “fuori” – fuori luogo, fuori dai giochi e dagli schemi, fuori tempo massimo perfino per l’amore che inseguono e mancano continuamente – è, insieme alla fuga, la condizione che li accomuna. Sono corpi che reclamano spazio ma non sanno come posizionarsi sulla scacchiera della vita: ne intuiscono le geometrie ma sentono che non esiste la casella giusta per loro così saltellano da A1 a B3, da G5 a L4 senza trovare una posizione in cui restare fermi e dritti, proprio come la secca nota storta spasimante per troppa stanchezza da un fosso all’altro mesta mesta saltella (Voce II).

AP:

Mi è piaciuta molto la polifonia di Frantumi. I personaggi del tuo lavoro sono tutti, o quasi, soli e nella solitudine sognano, inventano, bruciano, trovano uno spiraglio di gioia, bellezza. Questo alternarsi di voci narranti, secondo me, incrementa gli stati d’animo che racconti, li fa esplodere; come se tu stessa, come autrice, avessi avuto bisogno di un riposizionamento continuo per poter scrivere, raccontare. Qualcosa che secondo me ha che fare con l’arte attoriale che si contamina con la scrittura. Ho ragione oppure no? Se sì, ci dici qualcosa di questa osmosi?

M.C:

Come persona che scrive ho un debito verso la mia formazione attoriale e le esperienze di palco. C’è un movimento (empito) teatrale nel modo in cui i personaggi di Frantumi entrano in scena. Ancor prima di fissarli sulla pagina me li figuravo riuniti in un’immaginaria corte dei miracoli, come a dar loro una comunità di simili (la mia definizione ideale di “famiglia”) nella quale percepirsi accolti e non sentirsi sbagliati: in testa al corteo dei folli, con il suo cappello da giullare, il protagonista di Un sax a corte, debitore del Gwynplaine de L’uomo che ride di Hugo. Personaggi che, nell’istante in cui varcano una soglia, portano un’energia che non lascia indifferenti, muovendo lo spazio e i sentimenti di chi li incontra.

È vero che fuggono da tutto – da sé stessi, dalla famiglia, dalla società – ma al contempo riescono a toccare in profondità le vite degli altri.

La scelta di una voce narrante frantumata in quattro Voci (cocci che fanno da cornice, come ne Le città invisibili il dialogo con Kublai Khan), e che al contempo si incarna nelle dieci storie dei racconti, risponde a una mia esigenza autoriale. Come essere umano mi sento abitata (spesso invasa) dalle vite che tocco, e dalle quali mi lascio toccare: un modo per non perderle e al contempo lasciarle andare (liberarle, e liberarmi) è trasfigurarle sulla pagina mescolando il reale al materiale onirico.

C’è una contaminazione con l’arte attoriale nel rubare queste vite e indossarle, come accade nel gioco bambino del Facciamo che io sono e che tu sei, e c’è anche una crasi feconda con il disegno e la pittura. Alcuni personaggi nascono come sogni o incubi. Me la cavo bene con matite, carboncini e acrilici quindi, dopo aver sognato, mi capita di passare per l’arte figurativa prima di trasformare le immagini visive in grafemi e fonemi.

A.P:

Nel 2016 partecipai per la prima volta, e con successo, a un concorso letterario con un mio romanzo breve; il primo che scrissi. Nella descrizione del libro a opera della giuria, la prima parola associata al mio libro che notai fu ‘’cinico’’; ero felicissimo, ma mi domandai perché a trent’anni, quanti ne avevo all’epoca, scrissi qualcosa di ‘’ cinico’’. Adesso, circa sette anni dopo, sto per chiederti la stessa cosa perché Frantumi trasuda cinismo. Dimmi qualcosa al riguardo, del perché i personaggi danno questa sensazione, magari sbagliata; così mi aiuti anche con una domanda che mi porto nella valigia da tempo.

M.C:

Nessuno aveva mai parlato di “cinismo” a proposito di Frantumi. Mi dai modo di riflettere su un elemento nuovo, perciò ti ringrazio (e, a questo punto, sarei curiosa di leggere il tuo romanzo). L’ultimo coccio della raccolta è la Voce IV: le sono affezionata perché contiene una stella che si schianta e una risata, l’anima del bambino che dovrebbe essere pura ma è già consunta, e poi cocci che volano, graffiano nuvole e incendiano pianeti, come a dire di una ribellione gioiosa che però alla fine, quando la festa è finita, ti ritrova senza cielo (senza speranza). Prima di addormentarti, guardi il comodino e ci trovi solo i pezzi che hai perduto. I cocci, gli scarti, solo questo resta. Ed è con questo che dobbiamo fare i conti.

Mi vengono in mente due citazioni da L’uomo che ride di Hugo che credo restituiscano alla perfezione il senso di ciò che intendo.

Era ciò che non è più. Essere un avanzo sfugge a ogni definizione. Vi è una certa dose d’impossibile nelle realtà costituite dal non esistere più e persistere, dall’essere nel baratro e fuori, dal riapparire al disopra della morte come insommergibili. Da ciò nasce l’indicibile. Quell’essere – era poi un essere -, quel nero testimone, era un avanzo, e un avanzo terribile. Un avanzo di che cosa? Della natura, prima, della società, poi. Zero e totale.

Portland è una penisola. Ma il fanciullo ignorava che cosa fosse una penisola e non sapeva neanche la parola Portland. Ciò che sapeva era solo che si può continuare a camminare finché si cade. (…) Qualcuno lo aveva condotto là e là lo aveva abbandonato; “qualcuno” e “là” erano i due enigmi che rappresentavano il suo destino: “qualcuno” era il genere umano, “là” era l’universo. (…) Che cosa c’era per il fanciullo nel vasto mondo crepuscolare aperto da ogni lato? Nulla. Egli camminava verso questo Nulla. L’immenso abbandono degli uomini lo circondava.

La scrittura, per me, è un modo di giocare mentre ci si scava la fossa , di cantare mentre si lavora, proprio come neiworksongs, negli spirituals e nei blues.

Solo una risata ci salverà. Tutto il resto ci seppellirà.

Credo che l’ironia raccontata da Jankélévitch, insieme a qualche barbaglio di leggerezza alla Achille Campanile o alla Karl Valentin, siano l’unica possibilità per attraversare la Vita. Non è un caso che tra i dedicatari del libro ci sia la Morte, per strapparle una lacrima o una risata, farmela Amica. Nella speranza che sia gentile con me, quando tornerà a prendermi.

La tua era una domanda difficile, spero di non averla elusa (anche se ammetto di averci provato).

A.P:

Come ultima domanda sono curioso di chiederti della tua concezione della forma racconto visto che la rivista di questo si occupa. Le lettrici e i lettori di Grande Kalma avranno avuto modo di conoscere il tuo modo di scrivere leggendo il numero otto, e i racconti di questa raccolta mi sembra seguano un po’ quel canovaccio. Testi ibridi, verticali, poetici, lirici a volte; sembrano figli di un impeto, una necessità che esplode dopo gestazioni lunghe che finiscono nella scrittura ma che iniziano fuori dalla pagina scritta. E se vuoi, aggiungi dove – pensando alle riviste su cui mi sembra tu sia attiva – possiamo leggerti, oltre che in Frantumi.

M.C:

Parlando di necessità che esplode dopo gestazioni lunghe descrivi il mio processo di scrittura: la fase che prediligo è la ricerca e l’accumulo dei materiali, che si prende parecchio tempo. Rispetto a questa prima fase, l’effettiva stesura del testo è piuttosto rapida.

Trovo la forma racconto perfetta per esplodere e limitare la marea montante di stimoli che si affastellano nella mia mente. Me ne rendo conto soprattutto da quando ho iniziato a lavorare su progetti di più ampio respiro: il rischio di perdersi è più alto. La forma del racconto ti consente di selezionare ed eliminare con più agio. Mi pare poi che la forma breve, insieme al processo di ibridazione tra prosa narrativa e altri linguaggi (poesia, canzone, saggistica, giornalismo, eccetera) rappresenti il nostro tempo frantumato e caotico.

 Nei miei testi pubblicati sulle riviste ho spinto oltre il livello di Frantumi questo tipo di sperimentazione. Per quanto riguarda il ritmo imparo molto dalla musica che ascolto, oltre che dal dietro le quinte del processo compositivo: il mio compagno suona basso e chitarra e compone brani passando dal rock al metal, dall’elettronica al funk, così io ne approfitto e lo osservo mentre suona o fa il montaggio della traccia al pc. Il teatro insiste ad abitare la pagina anche da un punto di vista formale, con una scrittura che esplora (esplode) fuori dai (oltre i) margini: li attraversa, li rinnega, li tradisce e li supera. I personaggi di questi testi sono spesso corpi in gabbia, corpi desideranti, corpi repressi che provano a scardinare lo status quo, spesso in modo spiazzante. Del Professore di Frantumi c’è qualcosa in Coscimo. Nei toni perturbanti di Leida, La mavara, Piena di grazia metto in discussione il concetto di istinto materno, un costrutto culturale che ancora oggi fatichiamo a demolire; dentro c’è il mio amore per il suono delle parole, gli etimi e i nomi evocativi. Io non volevo nascere si compone e si spezza in una forma che sbraca, che supera i confini della riga somigliando a un grido, uno sbrego, uno sbocco, uno spreco, un graffio. Ne La meccanica della precisione, nato come monologo, il teatro è presente anche nella formattazione grafica: le lineette lunghe che segnano l’omissione di parole, il corsivo e gli incisi usati per alternare le frasi dei poliziotti ai pensieri di Sara. La scena è la casa – famiglia tradizionale (incarnata dalla coppia marito-moglie qui, madre-figlia altrove) come luogo pericoloso, di violenza psicologica e dolore. Dall’istante in cui veniamo gettati nelle cose del mondo, il nostro sguardo smette di essere innocente: è una voce bambina a incarnare quest’idea in Mara sul set. In vari personaggi torna il moto ossessivo-compulsivo del contare e misurare le cose come modo per sfuggire alla morte, o illudersi di procrastinarla – penso a Riccardo mentre muore sogna un microchip emozionale. Testi ibridi – frammenti esplosi da progetti più ampi in via di facimento – sono Silloge in cocci, Bianca eVertigine del segno.

L’esperienza delle riviste, successiva a Frantumi, mi ha dato la possibilità di immergermi in una nuova fase entusiasmante dello scrivere: distaccarmi dai modelli classici, sperimentare in solitudine nuove strade e mettere alla prova l’esito della ricerca, per capire se forma e contenuto stavano vibrando in modo coerente anche agli occhi di qualcun altro. Quando uscì Frantumi dissi che il mio pubblico ideale erano i non lettori. Nel mio piccolo, l’ho raggiunto (e sono andata anche un po’ oltre) perciò sono felice del percorso fatto finora. Per me una scrittura autentica è sempre un atto politico. Usa simboli per dire qualcosa del presente, e al presente, senza perdere la presa su temi universali. Forse l’atto politico sta proprio nell’interrogarsi sulle forme delle quali abbiamo bisogno oggi per raggiungere la mente e il cuore delle persone. Chiedersi sempre: qual è la forma migliore per dire una parola che non sia autoreferenziale, che non si parli addosso ma che allo stesso tempo non sia banale, che dica qualcosa di cui non possiamo fare a meno?


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