Laboratorio di micronarrativa e rivista letteraria dal 2020

Micronarrazioni: l’arte di non scrivere e di farlo con il cuore.

In questi mesi, all’incirca sei dalla nascita della rivista, mi sono domandato spesso le ragioni che mi hanno portato ad indagare questa forma di scrittura, creando non pochi equivoci con autrici e autori, per non parlare del fatto che scrivere un buon racconto tra le duecentocinquanta e le settecentocinquanta parole non è affatto semplice, ammesso che ci sia qualcosa di semplice in questo esercizio. Mi sono persuaso che questa mia curiosità sia dovuta all’idiosincrasia che ho nei confronti di una concezione cervellotica e ‘’ impegnata ‘’ della letteratura, e che è nelle forme di narrazione più brevi che si annida un genio che più facilmente si coniuga con la leggerezza, virtù poco praticata nel mondo delle riviste letterarie e spesso vista con sospetto dai letterati di ogni livello. Rivisitando i primi tre numeri della rivista, vedo che i racconti che più mi hanno convinto sono quelli in cui le autrici riescono a scegliere bene innanzitutto cosa non si deve scrivere, un’arte di scartare che invece di togliere aggiunge e lascia ai lettori la possibilità di immaginare, partecipare attivamente alla lettura e, in qualche modo, continuare a scrivere. Se è vero che con la narrativa breve non si crea quel rapporto con i personaggi e le storie che nasce invece con i romanzi, e assodato che questa è la ragione che relega questa forma ai margini del mercato, ho visto però nelle micronarrazioni una capacità di scrivere con il cuore e non solo con la testa, la potenzialità di rendere la scrittura ‘’illuminante’’.  Nel racconto La despedida di Flavia Company per esempio, ospite del numero zero, non nasce nessun legame con il protagonista della lettera ma usciamo dalla lettura con un insegnamento, con qualcosa di più prezioso della passione effimera per un personaggio. Anche se di un altro tenore, pure nel racconto Música para pastillas di Lalo Barrubia, ospite del numero due, la forma breve ci permette di avere un rapporto quasi esclusivo con le visioni distorte dei protagonisti, giovani di cui in fin dei conti non sappiamo niente alla fine della storia ma di cui conosciamo un momento, uno solo, decisivo nella loro formazione. La morte, nel primo caso, e la dissoluzione, nel secondo, pur restando eventi tragici si possono leggere come un disperato tentativo di comprendere, illuminare raccontando che cosa si vede guardando nel burrone. Premesso che, come lettore, voglio leggere solo cose di valore e che non mi importa che si scriva poco o tanto, credo che limitare il numero di parole costringa l’autore a fare quadrato, scavare all’interno della propria valigia e scoprire cosa ha imparato davvero. È per questo che nelle micronarrazioni, anche se solo per un attimo, l’autore ha la possibilità di dimenticare le proprie nevrosi e nel raccontare insegnare qualcosa agli altri. O forse, più banalmente, il limite delle settecentocinquanta parole è la barriera naturale perfetta che ci impedisce di scrivere e leggere un sacco di stronzate.


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