
«Vicentini, dritte quelle spalle, sguardo fiero, ubbidiente».
«Vicentini, ancora non ha terminato il compito? Il Duce ci vuole celeri ed efficienti».
«Vicentini, i libri di testo vanno tenuti con cura, siamo alla Scuola del lavoro, non in un pollaio di Rio Albo!». Che poi quella, sarebbe stata casa mia. E così avanti tutto il giorno.
La maestra Elvira aveva fianchi da giumenta che strofinavano le nostre divise quando si spostava tra i banchi e un petto appuntito che noi ragazzi imitavamo, appena si girava per tornare alla lavagna. Mio papà diceva che era una povera zitellona, una ciarlatana.
Per me la scuola era una continua ricerca di divertimento: mi piacevano le marce perché il mio pensiero si perdeva e il corpo andava in automatico, il moschetto che sognavo di usare, le sfide tra noi compagni: Attilio figlio del salumiere e Bepi, di una famiglia di contadini e muratori di contrada Cesari.
La nostra era una gara de braure[1], come le chiamavamo noi. Quello che ne faceva di più, era il più rispettato fuori. Io non mi tiravo indietro mai.
«Vicentini Mario, la esorto a tornare all’ordine». Quando nominava anche il mio nome, significava che era vicino al limite.
Un paio di volte la Elvira aveva osato mettermi sui ceci, dietro la lavagna. Una durante un dettato insulso che recitava più o meno così: «Oggi si ricorda il Ventennale della Vittoria. In questi giorni da tutte le parti d’Italia tutti i combattenti si sono recati a Roma sul Vittoriano in omaggio al Milite ignoto. Là il sacerdote celebrò la Santa Messa. Il Re Imperatore e il Duce hanno posto delle corone d’alloro. Venti anni fa in questo giorno tutta l’Italia esultava per la fine della guerra e per la grande Vittoria ottenuta sul nemico».
Il dettato della maestra si concluse con un mio bestemmione che risuonò per tutta l’aula e che scatenò un fragore di risate scomposte e sguaiate. Eppure, la mia bestemmia non era affatto un insulto a nostro Signore: avevo semplicemente aggiunto al Suo nome la parola “manovale” e non era forse una lode? Non era anche il Duce “mirabile architetto, muratore e manovale”?
Inoltre, la mia bestemmia nasceva da quell’asèno di Attilio che alla fine del dettato mi aveva schizzato l’inchiostro del pennino dietro l’orecchio; che colpa ne avevo io?
Il petto dell’Elvira si era gonfiato e le rughe del collo disegnavano mappe intricate.
«Vicentini Mario, si inginocchi su quei ceci, mani dietro la schiena, e ci stia finché non glielo dico io!».
La seconda volta, invece, la feci più grossa. La Elvira mi sorprese ridere durante la preghiera di inizio giornata, tutti dritti in aula. Non era colpa mia se Bepi, ogni volta che la maestra non lo guardava, alla fine di ogni verso imitava i conati di vomito.
Il risultato fu una bacchettata a tutta birra sulle nocche della mano destra, così forte che provocò all’istante un immediato «Quela vaca de to mare»[2]».
Secondo giro sui ceci. Il dolore alle ginocchia mi faceva vedere tanti puntini ai lati degli occhi, e non riuscivo a trattenere le lacrime. Attilio e Bepi ridevano nascosti dai colletti. Luamàri[3].
La maestra Elvira però doveva pagarla e per giorni studiai il mio piano. Chiesi una mano a un paio di amici di qualche anno più grandi, Bruno e Stefano, entrambi muratori ed ex allievi della stessa insegnante.
Fu così, alla fine, che fui cacciato da scuola.
In fondo mi divertivo di più ad aiutare nel lavoro la mia famiglia: nessuno mi diceva cosa fare, ero veloce ed avevo anche un sacco di tempo libero per i fatti miei. Portavo i mattoni con la carriola, usavo bene la cazzuola e la pialla e stavo anche imparando a prendere le misure.
Mio padre, quel giorno, venne a prendermi fin davanti scuola. Sulla soglia, ancora prima di dire qualcosa, mi arrivò uno sberlone tra capo e collo che non mi sarei dimenticato mai. Dopo, però, mi disse: «Poco male, andrai a lavorare come i tuoi fratelli, sarebbe anche ora».
La maestra Elvira fu trovata dal bidello alla fine delle lezioni. Era dentro il bagno degli insegnanti legata come una soppressa con della corda di canapa usata per i vigneti, appesa a testa in giù. Per l’occasione, avevamo sperimentato il nodo a spirale che si usa anche con gli arrosti: come cachi troppo maturi sul punto di scoppiare, i boccini di ciccia bucherellata le straripavano dappertutto. Io e i miei amici l’avevamo fatta grossa. Che impresa epica però, che ardore, quante volte avrei potuto raccontarla. Mi sentivo così potente e orgoglioso: lo sguardo disarmato della mia insegnante era il più bel premio dopo tante punizioni. Gli occhi traballanti che mai avevamo osato fissare. Ben le stava a quella strega. Certo, alla mia mamma venne tanto dispiacere. Non avevo imparato il valore dell’obbedienza come lei mi raccomandava, però…
Però, dopo quell’impresa, venivo rispettato da tutti. Mi sporcavo le mani e passavo le giornate tra i campi delle mie colline e i cantieri, e poi alla fine di tutto pensavo sempre: «Me ne frego».
[1] “Bravure”, letteralmente ‘birbanterie, ragazzate’ in dialetto veneto.
[2] “Quella vacca di tua mamma”.
[3] Letamai.